Luca Zeni – #IamACAV

 

Assessore alla salute e politiche sociali della Provincia autonoma di Trento

 

 

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articolo di Luca Zeni, ACAV Informa n.2 Novembre 2014

 

Tornare dopo quattro anni in Uganda con ACAV, l’ONG trentina che opera in Uganda e Sud Sudan, è stata un’esperienza intensa ma per molti aspetti nuova.

Perché ho osservato cambiamenti che non mi aspettavo.

Tutta la zona dell’Africa centro-orientale possiede un territorio incredibile, con risorse ambientali, materie prime, un terreno fertilissimo. Le istituzioni – pur con i tradizionali problemi africani legati agli assetti tribali, alla corruzione, allo sfruttamento delle multinazionali straniere – stanno realizzando importanti infrastrutture. Parliamo di strade, ma anche di accordi commerciali, monetari – si sta cercando di realizzare la moneta unica con accordi doganali che rendano permeabili le frontiere – economici (come certifica la massiccia presenza cinese).

Ma l’immagine simbolo che mi rimarrà nella memoria è legata a un settore diverso.

Mentre sobbalziamo sul furgone, percorrendo la strada che collega la capitale ugandese, Kampala, con Koboko, sul confine di nord ovest con Congo e Sud Sudan, una zona priva di elettricità, di acquedotti, di impianti di irrigazione, con strade sterrate e difficoltà di collegamento, a fianco della strada centinaia di operai scavano. Con badili e picconi, per decine di chilometri un fossato affiancava la strada. E dentro questo semplice fossato, stanno inserendo un tubo blu: la fibra ottica!

Ma come, sono anni che in Trentino discutiamo di un grande progetto per portare la banda larga nelle case, e poter essere all’avanguardia nel mondo, con opportunità di sviluppo per le imprese; un progetto, quello trentino, che ha visto rallentamenti e intoppi, con rilievi dell’Unione Europea e uno stallo che dura da troppo tempo, e in mezzo al nulla, in una delle zone più povere (e giovane) al mondo, prima degli acquedotti e le strade mettono la fibra ottica?

Poi ti guardi intorno, vedi capanne con i tetti di paglia; all’interno dormono in terra, spesso insieme a qualche capra e gallina. Fuori però vedi un pannellino fotovoltaico da venti centimetri per venti, al quale è attaccato il cavo del caricabatterie per il cellulare.

Il primo pensiero che ti viene in mente, è legato ai troppi casi italiani e trentini di ammortizzatori sociali che diventano assistenzialismo; chi di noi non si è mai indignato per chi riceve sussidi pubblici, rifiuta lavori “perché non voglio perdere l’assegno”, e poi lo vedi con l’I phone 6 che ancora deve uscire in italia? Sta accadendo la stessa cosa qui? Non hanno le scarpe ma il cellulare si?

Poi però approfondisci, e capisci che nel cuore dell’Africa il cellulare non serve per giocare. Dove le distanze sono reali, perché l’auto è un lusso accessibile a pochi e il trasporto pubblico lontano dall’essere realizzabile, il cellulare è quello che ti permette di verificare il costo al mercato dei prodotti agricoli, senza farti 30 chilometri a piedi, e così valutare quando vendere i tuoi 7 ananas e i 3 sacchi di cassava che hai coltivato.

Di più, in un sistema dove il sistema bancario non arriva, il cellulare ti permette di caricare sul tuo conto quanto riesci a risparmiare, dei 2-3 dollari che guadagni al giorno, così da mettere da parte un po’ alla volta un gruzzoletto di qualche decina di dollari, che potrai poi investire per acquistare delle piante di mango e incrementare la tua coltivazione.

Sono sistemi talmente semplici da essere rivoluzionari, in un Paese dove già oggi una persona su due ha un telefonino e dove la produzione agricola è costante tutto l’anno, salvo impreviste siccità: che abbia ragione quel vecchio visionario di Rifkin, per il quale siamo agli albori di una nuova fase per l’umanità, dove la rete porterà a sviluppare un nuovo concetto di democrazia con nuovi riflessi sull’economia? Forse siamo ancora lontani da tutto questo, ma in mezzo alle capanne di Koboco, la domanda si insinua dentro la testa.

Quattro anni fa ero tornato dall’Uganda con la convinzione che intervenire in contesti di forte povertà fosse un dovere etico, ma che non sia per nulla facile cambiare davvero la situazione: quanto incide l’attività di una singola associazione, per quanto competente? Non rischia di essere una goccia nel mare?

Questa volta ho potuto apprezzare cosa sia cambiato in soli quattro anni, e come un lavoro progettuale serio possa davvero modificare la situazione. In termini concreti: con un centro di formazione agricola ACAV ha formato centinaia di contadini, ora capaci di coltivare una terra fertilissima, ma soprattutto sta creando una “cultura della coltivazione”, per cui si innesta un processo che può portare uno sviluppo a lungo termine. E grandi opportunità di collaborazione “alla pari”.

Cosa significa? Che ci sono due tipi di interventi che le istituzioni occidentali possono mettere in campo.

Il primo è legato all’emergenza. Di fronte a guerre, carestie, epidemie, con emergenze umanitarie spesso di enormi proporzioni, viene chiamato in causa il dovere etico di non girare la testa dall’altra parte, quando un essere umano muore. Il coordinamento, in casi come questi, dovrebbe essere delle Nazioni unite, e un ruolo importante lo dovrebbe svolgere l’Europa.

Al di fuori di questi casi, gli interventi dovrebbero essere sempre meno legati alla solidarietà, intesa come “elemosina”, e sempre più alla cooperazione allo sviluppo.

Infatti ormai tutti i Paesi, che chiamiamo “in via di sviluppo”, hanno delle potenzialità notevoli, intorno alle quali si possono costruire opportunità di lavoro e benessere per le popolazioni locali, e momenti di collaborazione reciprocamente convenienti per le imprese straniere. Trentine nel nostro caso.

Cosa può fare la politica provinciale?

A livello legislativo, sicuramente seguire la via intrapresa dallo Stato italiano, e passare dalla solidarietà alla cooperazione internazionale, sostenendo i soggetti capaci di promuovere progetti di sviluppo che possono essere volano anche per l’impresa trentina, lasciando invece perdere l’elemosina che serve più a mettere a posto la coscienza di chi “va lì a dare una mano”, che a cambiare davvero le cose.

A livello di moral suasion, spronare i soggetti trentini, a partire dal sistema della cooperazione, a “sfruttare” la credibilità e le conoscenze che le ONG trentine hanno costruito negli anni, e a realizzare collaborazioni che possono, nel medio periodo, aprire nuove opportunità commerciali.

Le opportunità ci sono. Possiamo coglierle o lasciarle a imprese inglesi, cinesi, indiane. A noi la scelta.

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